Dal “piano” al “processo”: la vera essenza della pianificazione partecipata

“L’importante non è avere un piano, ma pianificare”. Non metto la mano sul fuoco che l’attribuzione a Churchill sia corretta, ma così mi è stata venduta. L’affermazione, però, coglie un punto importante, che chi si occupa di strategia ha bene in mente. A maggior ragione, quando si ricorre a metodi partecipati di costruzione.

Un piano strategico, magari costruito con il coinvolgimento di tanti attori in grado di portare saperi e informazioni da campi e settori diversi, rischia di nascere già vecchio. Soprattutto in alcuni ambiti, i cambiamenti sono cosi quotidiani che già solo i mesi che servono a “mettere in bella” le riflessioni di gruppi di lavoro all’interno di un piano strategico rischiano di essere troppi per mantenerlo convincente.

Allora è inutile pensare ad una strategia? Non è inutile. Non lo è nemmeno un piano. Basta intendersi bene sulla sua funzione.

Il punto è che il piano non può chiudere la riflessione. Non lo possiamo considerare il punto di arrivo, ma solo una tappa intermedia. Una tappa importante, perché esplicitare e mettere per iscritto le linee di indirizzo, gli obiettivi strategici che si vogliono perseguire come gruppo, come comunità, ha una funzione importante nel fare chiarezza, nell’aiutare la pluralità di persone che intervengono nella pianificazione a capirsi meglio tra loro, condizione essenziale per qualsiasi lavoro insieme.

Ma una volta condensate le riflessioni fatte in un piano, deve iniziare subito la sua messa in discussione, per confermare quelle conclusioni o magari scoprire che nuove idee, nuove informazioni possono quanto meno imporre precisazioni, approfondimenti, o complete revisioni.

Letta nella prospettiva del simbolismo organizzativo, l’esercizio può essere interpretato come un modo concreto per esplicitare, decostruire e ricostruire le mappe mentali collettive che usiamo per leggere la realtà. Riconoscere che noi guardiamo il mondo non come una realtà oggettiva, ma come realtà relativa costruita socialmente attraverso le nostre interpretazioni, le nostre attribuzioni di significato, ci fa capire che anche i problemi e le sfide che riconosciamo, così come le soluzioni che ci paiono convincenti, sono frutto di una certa interpretazione della realtà. Cambiando l’interpretazione, cambiano anche le priorità strategiche. E condividere una stessa interpretazione della realtà è fondamentale per collaborare insieme.

Ma un’interpretazione sociale della realtà non è statica. Viene continuamente plasmata dai contributi individuali, nella forma di idee, proposte, critiche, affermazioni, storie. I processi partecipativi servono a fare emergere questi contributi individuali, farli circolare e ricavarne alcune sintesi condivise che ogni partecipante porta immediatamente a casa, nel senso che immediatamente aggiorna i propri comportamenti in base ad essi.

Questo è il principale valore del “pianificare”: condividere una stessa visione del mondo in modo che ognuno possa dare il proprio contributo coerente per raggiungere obiettivi collettivi che fanno bene a tutti. Dunque, il piano, non è il prodotto finale di una catena di produzione più o meno efficiente, ma solo uno strumento per aiutare a condividere questa visione del mondo. Davvero, l’importante non è avere un piano, ma pianificare.