La selezione della classe politica

C’è un comune sentire, pur con gradazioni diverse nei vari contesti nazionali, che i politici non siano esattamente il meglio di ciò che la società possa offrire. Da qui, una sostanziale delegittimazione della classe politica, che di certo non giova alle istituzioni collettive, all’azione di governo e alla coesione della comunità.

Ma delle due l’una: o è strutturalmente impossibile avere i migliori come politici, e allora tanto vale smettere di lamentarsene; oppure, se lo si ritiene possibile, sarebbe il caso di mettere mano a quelle condizioni che portano alla presunta selezione avversa.

Alla prima opzione aderisce, in fondo, la teoria dell’elettore mediano di Duncan Black e tutte le altre opinioni che ritengono che i politici non siano altro che lo specchio della società, non il risultato di una selezione avversa.

Anche senza abbandonare l’idea che, forse, non si tratti di una vera e propria selezione avversa, domandarsi che cosa può motivare le persone, specialmente quelle che potrebbero essere più utili al bene collettivo, a mettersi a disposizione per una carica pubblica può portare a risultati interessanti.

Il tema non è certo nuovo. Platone partiva dall’assunto che i filosofi, quelli che secondo lui (ma diceva che fosse la natura stessa a evidenziarlo) erano i più titolati ad assumere compiti di governo, non avevano alcuna voglia di governare. Le lotte per il potere, che mettevano a rischio la stabilità e il benessere dei cittadini, erano la dimostrazione che non fossero proprio i migliori ad occupare posizioni di governo. C’era, dunque, spazio per riforme che aiutassero a costruire la “città giusta”.

Nella città giusta, appunto, sarebbero dovuti essere i filosofi a governare. Ma questi avrebbero di gran lunga preferito dedicarsi alla filosofia piuttosto che al governo. Che cosa, dunque, li avrebbe potuti spingere a mettersi al servizio del bene della comunità?

Innanzitutto, un filosofo avrebbe riconosciuto l’attività di governo come attività a beneficio dei governati e non dei governanti. Se la si assimilasse ad altri mestieri, che portano beneficio ai destinatari, ma prevedono in cambio una remunerazione per chi li esercita, sarebbe da pensare ad una remunerazione anche per i politici. Però, nel dialogo “Repubblica”, Socrate giunge alla conclusione che i buoni governanti non accetterebbero mai di governare in cambio di una remunerazione.

Semmai, in prima battuta essi sentirebbero la costrizione esercitata dal resto della società a che si assumano l’onere di governare. In più sarebbero anch’essi interessati ad evitare la punizione di essere governati da persone inadeguate.

Accanto a queste motivazioni, non è da dimenticare il senso di giustizia. La giustizia, secondo Platone, è insita nella natura. Una società è giusta quando ognuno occupa il posto che gli spetta in base alle sue naturali attitudini. I saggi filosofi non possono non riconoscere quale sia il ruolo sociale che spetta loro. D’altro canto, anche gli altri cittadini avranno maturato quella virtù della sphrosyne che invita a riconoscere autorità proprio ai filosofi e obbedire alle loro decisioni per il bene di tutti. Con loro alla guida, la città fiorirebbe portando benefici a tutti. Soprattutto, altre persone avrebbero a loro volta la possibilità di maturare come filosofi.

In quanto parte della comunità, che ha una funzione educante centrale, i filosofi riconoscerebbero che molto del loro sapere deriva proprio dalla comunità di cui sono parte o dalle condizioni favorevoli che essa ha saputo creare. Quindi, sia per assicurare il meglio alla comunità, sia per ricambiare i benefici ricevuti dall’esserne parte, i filosofi si sentiranno costretti a servirla in qualità di governanti.

Platone dipinge una situazione davvero ideale. Però non si può negare che molte volte, le persone che riterremmo più adatte a sedere negli organi decisionali pubblici si guardano bene dal candidarsi. Forse anche per loro sarebbe necessaria una “chiamata in causa”, una richiesta esplicita a farsi avanti, con cui si riconoscerebbe che sarebbero loro i più adatti al compito.

Sarebbe un modo per invertire la dinamica elettorale che più spesso anima la scelta dei governanti: una fiera delle vanità, dove si millantano anche competenze che non si hanno, promesse che non si sa nemmeno lontanamente come realizzare, al solo scopo di ottenere il potere.

Se, invece, la tornata elettorale iniziasse con una chiamata, personale e accorata, dei migliori affinché si assumano l’onere del governare, a cominciare dal sottoporsi al giudizio elettorale, forse si arriverebbe a soluzioni più vicine agli esiti auspicati da Platone.

Un piccolo suggerimento ai partiti.