Avete aggiornato il vostro approccio manageriale?

Nel giro di pochi giorni, diverse persone che io stimo molto per professionalità e dedizione, mi hanno riportato fatiche pesanti che stanno vivendo nei rapporti con i loro superiori. Mi sono chiesto: perchè queste persone che possono a buon diritto essere riconosciute come “fiori all’occhiello” dei rispettivi team non dovrebbero sentirsi pienamente a proprio agio nelle loro organizzazioni? Per il bene delle organizzazioni stesse, per preservare la loro capacità di assolvere le missioni a loro affidate, queste ultime dovrebbero fare di tutto per mettere queste persone nelle migliori condizioni per lavorare. Eppure non è così. Che cosa non va?

Le organizzazioni sono cambiate.

Credo che il problema fondamentale sia che la cultura manageriale è rimasta attaccata a vecchi schemi. Che non sono funzionali al sistema attuale: un portone che si apre, per chi si occupa di formazione manageriale.

Partiamo dal ruolo della capa/del capo. Già il nome richiama strutture gerarchiche in cui La/il capa/o, dall’alto, dava istruzioni perché dall’unità organizzativa uscisse un buon lavoro. Molti strumenti organizzativi, dall’organigramma al layout degli uffici, sono rimasti invariati, per cui è facile cadere nell’errore che anche la storia non sia cambiata. Non è così.

Iniziamo con una affermazione chiara: la gerarchia non esiste più, almeno nelle rappresentazioni mentali delle persone. La/il capa/o non è per definizione la dea o il dio in terra, che tutto sa e tutto può. Questa rappresentazione teneva quando effettivamente tra superiori e subordinati vi era una differenza di conoscenze e competenze sostanziale: i subordinati erano il braccio e i superiori la mente.

Oggi molte organizzazioni sono ad “alta intensità di conoscenze e di specializzazioni”. I subordinati spesso ne sanno, per il loro specifico settore, molto di più del/la capo/a, vsia perché hanno formazioni più recenti (e l’obsolescenza delle conoscenze è diventato a tutti gli effetti un problema organizzativo oltre che sociale), vuoi perché hanno maggiore facilità creativa, data l’età. E creatività e conoscenze all’avanguardia sono i fattori critici di successo riconosciuti, molto più che lealtà, disciplina e rispetto per la tradizione. Una frase molto ripetuta di Steve Jobs ben sintetizza il quadro: “Non assumiamo i migliori talenti per dire loro che cosa fare”. Una rivoluzione rispetto alla visione classica.

Una filosofia confermata anche da alcune teorie sulla motivazione. La Teoria dell’Autodeterminazione di Ryan e Deci afferma chiaramente che, in contesti di lavoro in cui creatività e problem solving sono cruciali più che efficienza e routine (e tutti i lavori con professionisti sono evidentemente di questo tipo), le persone sono più motivate e “rendono di più” quando trovano soddisfatti i loro bisogni fondamentali di competenza (vedere di essere in grado di raggiungere risultati sempre più complessi grazie alle proprie capacità crescenti), di relazionalità (vedersi apprezzati e riconosciuti) e di autonomia (potersi autodeterminare nel modo di lavorare).

Le condizioni organizzative e la cultura manageriale ne dovrebbero trarre le appropriate conclusioni.

Ma quindi un/a capo/a non serve più? No, anzi. Ma certo, vale il vecchio adagio per cui “un/a buon/a capo/a è quello/a che riesce a rendersi inutile”.

Oggi un/a capo/a è innanzitutto “un costruttore o una costruttrice di comunità”, o per dirla con un termine più di moda, “di piattaforme”. Come le piattaforme sul web hanno successo quando su di esse gli utenti si trovano a proprio agio e hanno la possibilità di interagire facilmente con altri e raggiungere, in questo modo, più facilmente i propri obiettivi, così anche le organizzazioni dovrebbero fare lo stesso con i propri collaboratori e le proprie collaboratrici.

Un/a bravo/a capo/a crea le condizioni perché ciascun collaboratore e ciascuna collaboratrice esprima il massimo delle sue potenzialità, inserita/o in un gruppo armonioso che sia orientato a perseguire una missione importante entro un contesto che cambia velocemente e imprevedibilmente.

L’autoregolazione e l’auto-coordinamento sono assicurati da poche regole, chiare e semplici, e, soprattutto, da un senso di responsabilità condivisa, verso gli obiettivi collettivi e verso gli altri.

In questa visione, la/il capa/o non si sente sminuita/o dal fatto che i suoi collaboratori e le sue collaboratrici ne sanno più di lui. Non entra in competizione facendo pesare il suo potere gerarchico per recuperare su quel piano la presunta minaccia alla sua autorità che deriva dall’autonomia e dalla competenza di chi compone la squadra. Un/a buon/a allenatore/trice non è chi è convinta/o che  l’unico modo per fare goal sia quello di entrare in campo al posto dei giocatori. Anzi, se lo facesse farebbe una magra figura. Un/a buon/a allenatore/trice è chi che permette ai talenti di chi è in campo di esprimersi al meglio.

A quel punto, non è nemmeno necessario essere stati prima giocatori per essere bravi allenatori. Come ribatteva Arrigo Sacchi a chi glielo rimproverava nonostante le vittorie: “Non è necessario essere stato prima cavallo per essere un buon fantino”.

Molte Lettrici e molti lettori commenteranno questo articolo dicendo: “Io di certo sono una costruttrice/un costruttore di comunità, non un/a capo/a all’antica!”.

Probabilmente è vero. Però, se volete avere la totale certezza, vi suggerisco un test: nelle riunioni con i collaboratori e le collaboratrici, quanto è il tempo in cui parlate voi e quanto è il tempo in cui parlano loro? Non affidatevi alle sole percezioni. Provate ad utilizzare un cronometro. Considerato che chi costruisce comunità trova più utile ascoltare, traete voi le conclusioni rispetto all’esito del test… E se non fosse quello che vi aspettavate, non preoccupatevi: siamo qui per imparare.