Platone

Nei suoi dialoghi, non presenta sistematicamente le sue riflessioni, ma le fa emergere dalla “voce” dei suoi personaggi. Già per questa scelta di stile, Platone appare agli occhi dei lettori di 2’400 anni dopo come un creativo. Eppure, è il più tradizionale (nel senso del più lontano nel passato) dei filosofi politici della cultura occidentale.

Ateniese, non nasconde le sue simpatia per il modello istituzionale spartano. Eppure nasce (427 a. C.) nel bel mezzo della guerra del Peloponneso (431-404 a. C.), che vedeva lo scontro proprio tra la potenza del mare, Atene, e la potenza di terra, Sparta, per il controllo della Grecia.

E’ discepolo devoto di un maestro, Socrate, che ha certamente sconvolto i benpensanti di allora, visto che lo hanno condannato a morte. Li ha sconvolti non perchè fosse a capo di una fazione armata volta a sovvertire l’ordine costituito, ma per la sua opera educativa che ostinatamente non si piegava alle indicazioni che venivano dall’alto.

E nelle sue opere, Platone non manca di sottolineare il martirio di Socrate sull’altare della libertà di pensiero.

Un pensiero, quello di Socrate, che era sempre rimasto orale. Se un paio di millenni dopo anche noi lo possiamo ricordare è perchè Platone si è premurato di metterlo per iscritto. A noi, naturalmente, rimane sempre il dubbio rispetto a dove si posizioni il confine tra il pensiero originale di Socrate e la rilettura del discepolo.

La devozione di Platone per Socrate fa ancora più notizia se pensiamo all’estrazione sociale dei due.  Platone è il rampollo di una famiglia aristocratica di antiche origini. Fa parte dell’élite sociale ateniese.

Socrate è figlio di uno scalpellino e di una levatrice, è sempre vissuto in povertà e la sua fine la conosciamo. Eppure il giovane Socrate è rimasto tanto affascinato dal maestro, da impegnarsi per tutta la vita per onorarne il ricordo e trasmetterne il pensiero, anche attraverso l’istituzione dell’Accademia.

Suona per questo superficiale il giudizio secondo cui la visione platonica dell’uomo è (troppo, secondo alcuni) “aristocratica”. Anzi, si può concordare sul giudizio solo a patto di mettere ben in chiaro che cosa si intende per “aristocrazia”: non il governo dei più ricchi e facoltosi, ma il governo dei migliori, per quel ruolo. In questa accezione più aderente alla semantica della parola, non ci sono dubbi: la visione platonica dell’uomo e del governo è “aristocratica”.

Anticipando i moderni esperti di risorse umane che puntano l’attenzione sulle attitudini intrinseche delle persone come patrimonio da analizzare e conoscere per poter associare “la persona giusta al giusto posto di lavoro”, Platone sancisce questo principio anche per le funzioni che i singoli sono chiamati ad assumere all’interno di una società.

L’anima di un uomo, secondo Platone, è composta da tre parti. Una parte è tesa verso l’apprendimento ed il sapere, la seconda suscita sentimenti animosi ed è rivolta alla fama e all’onore, la terza ispira il desiderio di guadagno e di soddisfazione dei bisogni più materiali.

In ogni uomo, si può riconoscere una parte di anima prevalente rispetto alle altre. In un sistema sociale ordinato, i membri dovrebbero assumere quelle funzioni sociali per le quali sono più portate. Quindi, i “filosofi”, con un’anima amante dell’apprendere più sviluppata, dovrebbero assumere la funzione di governo, i “guerrieri”, con un’anima amante della fama e intrisa di sentimenti passionali, dovrebbero essere destinati alla difesa della città, gli “imprenditori”, con un’anima amante del guadagno, dovrebbero essere destinati a provvedere al sostentamento della comunità.

Ogni classe è aperta, nel senso che i figli di “guerrieri”  o “di imprenditori” possono essere riconosciuti come attitudinalmente più adatti a diventare “filosofi”. E viceversa.

Ogni classe è importante all’interno dell’organismo sociale. Il legame di solidarietà tra i cittadini, a prescindere dalla classe di appartenenza, è assoluto. La metafora che Platone usa è quella dell’organismo vivente, in cui ogni organo assume importanza in relazione al tutto e il tutto sopravvive solo grazie alla buona salute di ciascun organo (anche qui, gli esperti di organizzazione aziendale vengono anticipati).

Il legame di solidarietà si esprime nelle virtù civili, nella giustizia. Un comportamento è giusto quando guarda al bene comune. E un comportamento giusto perchè si cura innanzitutto del bene comune è anche quello più lungimirante sotto il profilo dell’utilità individuale. La giustizia è l’unica via affidabile verso la serenità e la felicità umana.

Nel Repubblica Platone fa dire a Socrate che anche in una banda di ladri il comportamento giusto, cioè rispettoso dell’interesse del gruppo, è quello più utile anche per i singoli. Un comportamento ingiusto, infatti, farebbe perdere tutti.

Il problema, semmai, è che l’uomo fa fatica ad ascoltare la parte razionale dell’anima che gli suggerirebbe il comportamento giusto che porta verso la felicità. Essa rischia di essere offuscata dalle passioni e dalla brama di guadagno immediato.

In fondo, quindi, il governo è un’azione educativa: compito del governo è quello di accompagnare i cittadini ad imparare a dare ascolto alla parte razionale della loro anima, anche quando una delle altre due è prevalente. Il governo della città, dunque, deve essere innanzitutto interpretato come governo delle anime.

E per governare le anime diventa importante l’abolizione della proprietà privata, che rischierebbe di far frantumare la società perchè dà troppo peso all’interesse individuale rispetto all’interesse comune, l’abolizione della famiglia tradizionale con l’affidamento dell’educazione dei bimbi allo stato, l’inquadramento della sessualità ai soli scopi procreativi.

Confesso che l’idea dell’attività di governo come attività educativa mi affascina. Certo, suona “politicamente scorretto” alle orecchie moderne. Ma in fondo, anche se non è chic dirlo, è proprio quello che un governo deve fare: promuovere alcuni comportamenti che guardano al bene comune complessivo. Ma perchè questi comportamenti effettivamente trovino spazio nella pratica, i cittadini devono riconoscere che la felicità individuale è intrinsecamente dipendente dal bene comune. Certo, questo riconoscimento implica uno sforzo di lungimiranza, cioè la disponibilità di dare ascolto all’anima razionale. Verrebbe da dire che non è un caso che Platone sia tra i classici del pensiero politico.

 

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