Anche l’impero britannico promuoveva il senso civico

Anche le autorità coloniali britanniche, che dopo la prima guerra mondiale avevano ottenuto la Tanganica (odierna Tanzania continentale) dalla Germania, si posero l’obiettivo di accompagnare gli abitanti locali nel loro processo di “divenire cittadini”. Questo significava promuovere nuovi valori e comportamenti e il modo per ottenere un tale cambiamento fu trovato in nuove forme di governo locale e nei “welfare community centres”, luoghi dedicati a trascorrere il tempo libero in modo educativo e costruttivo.

Andrew Burton, nell’articolo “Townsmen in the Making: Social Engineering and Citizenship in Dar es Salaam”[1] ripercorre questa strategia, la sua implementazione concreta e gli effetti che ha avuto, basandosi su una dettagliata ricerca storica tra i documenti conservati negli archivi del governo britannico. Un’interessante ricostruzione per chi, come noi, sente lo stesso bisogno di fare qualche cosa per mantenere elevato il senso civico dei membri di comunità, in qualunque parte del mondo.

E allora andiamo a conoscere, proprio grazie al Prof. Burton, più da vicino questa esperienza.

Le origini

Gli anni ‘30 e ‘40 del 900 videro un cambio di rotta nella politica coloniale. Nuove correnti di pensiero, nuove forme di produzione economica e cambiamenti sostanziali nelle società africane portarono ad un approccio meno autoritario e più progressista, anche se comunque ispirato ad un chiaro intendimento di controllo. Si affermò l’idea che fosse necessario scalzare il tradizionale sistema tribale, su cui si era fondato il sistema di “governo indiretto” britannico, per promuovere moderni principi democratici. La riorganizzazione dell’attività produttiva locale, dopo le guerre mondiali, aveva portato all’emergere di nuove classi di lavoratori locali residenti stabilmente nelle città. Queste ultime videro una crescita imponente sia di popolazione che di attività produttive, con le conseguenti tensioni sociali. Così, sempre maggiori risorse sia umane che materiali furono dedicate alla promozione dello sviluppo delle condizioni di vita dei lavoratori locali. In particolare, vi fu una crescita significativa dell’offerta di servizi sociali: di scuole, di cliniche mediche, di centri civici (community centers), di centri per l’impiego, etc.

Nella crescita tumultuosa degli anni 30 e 40 i responsabili dell’amministrazione coloniale percepirono sempre più chiaramente le città come luoghi di vizio dilagante, in cui i locali, ormai liberati dalle norme sociali legate all’appartenenza tribale, apparivano come senza etica né morale.

I rappresentanti dell’amministrazione coloniale rilevavano il chiaro problema di un’assenza di coscienza civile tra i locali e si posero dunque l’obiettivo di alimentare tale coscienza e contemporaneamente preparare queste persone a prendere il loro posto nel mondo moderno, in particolare creando istituzioni attraverso cui potessero essere forgiate nuove forme di relazione sociale e nuovi modelli di comportamento.

Non è che mancassero forme di associazionismo spontaneo o occasioni di socializzazione, a dire il vero. Piuttosto, erano giudicate non sufficientemente “civili”.

Il coinvolgimento nel governo locale

Proprio a livello comunale, negli anni 40 fu introdotto il sistema dei consigli di circoscrizione (ward councils). Essi intendevano offrire una via di sfogo controllata a un desiderio crescente di maggiore protagonismo politico, ma soprattutto erano intesi come palestre per allenare le élite locali a sviluppare senso di responsabilità e leadership verso la comunità. Ci si aspettava che partecipassero soprattutto i più istruiti e, in questo modo essi potessero diventare modelli di comportamento per le classi meno abbienti. Erano, infatti, proprio queste ultime a rappresentare la principale fonte di preoccupazione per l’amministrazione coloniale.

Così a Dar es Salaam, capitale dello stato, furono introdotti 3 consigli di circoscrizione, che coprivano i quartieri di:

  • Ilala, Kariakoo e Kisutu
  • Upanga
  • Kinondoni

Burton sottolinea come questa innovazione istituzionale soffrisse di una serie di limiti che ne minarono l’efficacia. Si trattava di limiti radicati in una mancanza di fiducia da parte dei referenti britannici rispetto all’effettiva capacità dei locali di badare a sé stessi.

Innanzitutto, la composizione dei consigli: i 10 consiglieri erano suddivisi tra 5 che rappresentavano la gerarchia tribale tradizionale e 5 nominati dal commissario distrettuale britannico: nessuno spazio era lasciato ai residenti della circoscrizione per esprimere le proprie preferenze rispetto a chi dovesse sedere nel consiglio.

Un secondo limite, ancora più evidente, era la mancata attribuzione ai consigli di un qualsivoglia potere reale: erano organi meramente consultivi. Già poco dopo la loro introduzione, questa sostanziale irrilevanza fu segnalata come potenzialmente pericolosa da parte dello stesso commissario distrettuale, che chiese che fosse data loro una qualche responsabilità finanziaria. Non arrivò che molto dopo. Nel frattempo, Dar es Salaam aveva acquisito lo statuto di municipalità e ai consigli di circoscrizione fu affidato il compito di suggerire alle autorità britanniche le short-list da cui sarebbero stati scelti 3 dei 4 membri indigeni del consiglio municipale. Ogni consigliere municipale cosi scelto doveva anche partecipare obbligatoriamente ad un incontro mensile del consiglio di circoscrizione di riferimento. In questo modo, poteva fare da trait-d’union tra i due livelli.

Ben presto i consigli di circoscrizione furono disertati sia dagli anziani della gerarchia tradizionale, che si sentirono scavalcati e limitati da questa nuova istituzione, sia dai giovani acculturati che avrebbero dovuto sentirsi maggiormente ingaggiati nel governo locale. Questi ultimi, in particolare, lamentavano l’assenza di remunerazione per l’impegno e, soprattutto, l’inutilità del lavoro in essi, visto il ruolo meramente consultivo. Venendo meno queste persone, i consigli caddero nell’inattività, tanto che la stessa popolazione ne aveva una ben bassa stima.

Anche quando nel 1952 fu introdotta l’elezione dei consiglieri di circoscrizione da parte dei residenti e furono aggiunte nuove circoscrizioni, queste istituzioni rimasero vuote di contenuti e di riconoscimento sociale. Nel 1955 solo il 4.5% degli aventi diritto prese parte agli incontri per selezionare i consiglieri, prova dell’evidente disinteresse.

D’altro canto, prese piede l’Unione Nazionale Africana della Tanganica (TANU), un movimento nazionalista che tra febbraio e settembre 1955 fece registrare un aumento degli iscritti nella sola Dar es Salaam da 2’000 a 25’000. Segno questo che il disinteresse non fosse rispetto alla politica in generale, ma verso specificatamente i consigli di circoscrizione.

Così, quando finalmente nel 1958 ai consigli di circoscrizione furono affidati più sostanziali poteri esecutivi, ormai era troppo tardi.

Come Burton afferma,

“se il governo coloniale avesse attribuito maggiore fiducia nelle capacità dei locali di auto-governarsi, forse questi avrebbero risposto dando fiducia alle strutture amministrative ufficiali”.

Le iniziative di sviluppo sociale

Il Social Welfare Office (1945), significativamente rinominato Social Development Department nel 1950, si diede come missione quella di

“aiutare uomini e donne a vivere più pienamente, più felicemente, sapendosi adeguare ad un contesto in continuo mutamento, a sviluppare i migliori elementi della loro cultura, a raggiungere quel progresso economico e sociale che consenta loro di trovare il loro posto nel mondo moderno”.

I suoi funzionari si fecero carico del compito di plasmare una nuova comunità di residenti urbani, con nuove abitudini sociali, nuove competenze e nuove relazioni di fedeltà, diverse da quelle tribali precedenti. Lo strumento che usarono furono i centri civici (community center).

Si trattava di una soluzione già sperimentata sin dagli anni 30 nel Regno Unito per accompagnare le masse di lavoratori delle città industriali a prendere coscienza del loro valore come individui attraverso un buon uso del tempo libero che condizioni di lavoro più ragionevoli permettevano. I centri civici volevano rafforzare la vita comunitaria nei nuovi quartieri periferici, offrendo possibilità associative e ricreative con una forte impronta educativa che permettessero di ricreare nuovi legami sociali laddove le vecchie forme di coesione sociale si erano sgretolate con la rivoluzione industriale.

 

La Tanganica fu una delle prime colonie a sperimentare questo modello dei centri civici per integrare il proletariato urbano, a partire dai soldati di ritorno dai campi di battaglia della seconda guerra mondiale. I centri civici dovevano fornire lo spazio fisico necessario ad ospitare associazioni costituite e gestite direttamente dai residenti, ma che potessero sfruttare le infrastrutture educative e ricreative per le loro attività e, così facendo, promuovere uno spirito di comunità e di auto-aiuto. Ogni centro era retto da un comitato, che poteva contare sul supporto di un funzionario del dipartimento dello sviluppo sociale, ma che restava autonomo e pienamente responsabile dell’autofinanziamento e della gestione del centro.

Visto che una delle attività ricreative più diffuse nei centri civici era il ballo, molti storsero il naso rispetto all’effettiva capacità di questi centri di promuovere una crescita morale dei frequentatori. Ma ospitarono anche gruppi di discussione, corsi di formazione su varie tematiche, dall’economia domestica allo sport. Ospitarono anche gli incontri degli attivisti di TANU e la loro capacità di intercettare la popolazione locale fu favorita anche proprio dalla presenza di questi centri.

Conclusioni

Fa specie che i bisogni e gli obiettivi riconosciuti dai funzionari dell’amministrazione coloniale britannica negli anii 30 e 40 del 900 fossero gli stessi nostri di oggi: promuovere senso civico, responsabilità verso il bene comune, cooperazione e coesione sociale. Potrebbe voler dire che noi siamo in ritardo con la storia e che, quindi, dovremmo cercare prospettive più evolute. Oppure che effettivamente queste necessità sono costanti nel corso del tempo e che serve semmai far tesoro delle esperienze passate. Propendiamo per questa seconda opzione.

E allora, che lezioni trarre? Almeno le seguenti:

  1. L’ansia di controllo, generalmente fondata su una svalutazione delle capacità dei destinatari degli interventi di essere autonomi, porta a introdurre alcuni limiti (ad esempio, la non attribuzione di poteri effettivi ai consigli di circoscrizione) che fanno una sostanziale differenza rispetto all’efficacia della politica. Ansia di controllo e svalutazioni sono da tenere a bada e non è da sottovalutare che spesso la differenza tra il successo e l’insuccesso di una politica la fanno aspetti che a prima vista potrebbero sembrare secondari.
  2. Per un effettivo empowerment delle persone è necessario che queste ultime siano lasciate libere di fare le loro esperienze. Certo, occorre mettere in conto anche il rischio che esse commettano errori: ma ci può essere vera autonomia se si esclude a priori la possibilità di sbagliare? Per quanto spiacevoli, gli errori sono una necessaria risorsa per l’apprendimento. Aspettarsi che tutto fili liscio senza sbagli è un’evidente distorsione della realtà.
  3. Lasciare autonomia vuole anche dire accettare che le proprie aspettative vengano deluse perché il corso delle cose prende pieghe inaspettate o anche non volute. Proprio il movimento nazionalista che chiese ed ottenne l’indipendenza della Tanzania nel 1961 può essere visto come il più fulgido successo dell’impegno dell’amministrazione coloniale britannica a promuovere la coscienza civica delle nuove élite urbane, a fare in modo che esse divenissero modelli di comportamento per il proletariato urbano e promuovessero atteggiamenti più responsabili verso la vita comunitaria e democratica. Ma sicuramente non era intenzione dei funzionari britannici vedere la Tanzania distaccarsi dall’impero britannico. Autonomia e libertà hanno le loro esigenze.

 

[1] Burton, A. (2003). Townsmen in the Making: Social Engineering and Citizenship in Dar es Salaam, c.1945-1960. The International Journal of African Historical Studies, 36(2), 331–365. https://doi.org/10.2307/3559387

Immagini tratte da https://www.flickr.com/photos/nationalarchives/albums/72157625849884949