Politica di milizia e senso del dovere

In Svizzera la politica si dice di “milizia”, intendendo che chi fa politica lo fa come forma di volontariato. Visto l’impegno crescente richiesto, soprattutto in alcune realtà come quelle urbane o cantonali, è aperto il dibattito se si debba piuttosto andare verso una forma di “professionismo”, cioè facendo diventare almeno alcune cariche un vero e proprio lavoro. Di fatto, per alcune è già così. I Consiglieri di Stato, ad esempio, sono Capi dipartimento e in quanto tali assunti a tempo pieno nell’Amministrazione cantonale. Lo stesso dicasi per i Consiglieri federali.

“Professionismo” però viene spesso interpretato come equivalente a “retribuzione dei politici”. Concentrare prevalentemente l’attenzione sulla questione della retribuzione rischia, a mio giudizio, di essere fuorviante.

Partiamo dall’inizio.

La parola “milizia” richiama il latino “miles – militis”. Il senso etimologico associa il/la politico/a al soldato, sottintendendo che l’impegno richiesto sia in qualche modo simile: un impegno che è innanzitutto un dovere a mettersi al servizio della comunità in caso di bisogno. Un servizio altamente impegnativo, che nel caso del soldato può richiedere il sacrificio della propria stessa vita. Un dovere che è innanzitutto morale, e  poi anche sancito dalle leggi. Nel caso dei politici comunali lo si ritrova nel “dovere della carica”, cioè nell’impossibilità per chi è eletto di dimettersi, se non per casi particolari e dietro apposita autorizzazione.

Se la milizia presuppone un dovere di servizio verso i bisogni della comunità, con relativo sacrificio personale annesso, ciò non esclude che l’impegno richiesto possa essere remunerato. Elemento più qualificante è l’impossibilità di sottrarvisi insito nel concetto di “dovere”.

La vera questione che riguarda la politica di milizia è se il senso di questo dovere sia ancora sentito. Quale è il significato attribuito all’impegno politico dalla società di oggi? E’ ancora coerente con il senso originale?

Lo possiamo intuire dai comportamenti osservabili nei membri della comunità. Proviamo innanzitutto a definire quelli che ci aspetteremmo come più coerenti con l’idea originale. Ne cito solamente tre a titolo d’esempio.

Ci si aspetterebbe una piena identificazione tra “cittadini ordinari” e “politici”. Visto che l’impegno politico è un dovere per tutti, prima o poi, in una forma o nell’altra, tocca a ciascuno farsene carico. Non avrebbe senso, allora, distinguere tra “noi, cittadini” e “loro, politici”. Non avrebbe senso identificare i “politici” come una casta a parte, magari da criticare per supposte caratteristiche congenite (“sono tutti ladri!”), perché sarebbero critiche sostanzialmente rivolte a se stessi. Al contrario, si dovrebbero osservare prudenza nei giudizi, comprensione per le difficoltà della carica, stima per l’impegno assunto e la fatica sopportata.

Andando oltre, e siamo al secondo esempio, si dovrebbero osservare comportamenti più collaborativi con le istituzioni pubbliche. Anche chi non ricopre una carica pubblica in quel momento, sarà più disponibile a dare una mano, anche solo per l’auspicio di essere ricambiati quando verrà il proprio turno. C’è da aspettarsi, dunque, un incentivo in più a che tutti si impegnino per il bene comune, sia chi ne è ufficialmente incaricato, sia chi semplicemente fa parte della comunità.

Infine, ci si dovrebbero aspettare comportamenti specifici anche nel momento particolare delle elezioni. Ad esempio, suonerebbe strano parlare di “vittoria” e “sconfitta” elettorale, cioè intendere le elezioni come una competizione in cui il politico più bravo vince. L’impegno politico è un dovere, un’assunzione di responsabilità che costa fatica e che quindi si eviterebbe anche, potendo. Alle elezioni “ci si mette a disposizione” come candidati perché si sente di doverlo fare nonostante il sacrificio che ciò comporta. Più che una competizione in cui vincere a tutti i costi, l’elezione è una tappa del processo decisionale collettivo che deve portare a individuare la direzione verso cui far sviluppare la comunità. In questa tappa, si confrontano le diverse opzioni, le diverse possibili direzioni, con le loro implicazioni in termini di priorità, di valori da mettere al primo posto. Anche le proposte che alla fine riceveranno meno consenso da parte dei cittadini avranno comunque contribuito ad arricchire il dibattito, ad approfondire le questioni, ad adottare diversi punti di vista, a tutto vantaggio della ponderazione della scelta. Per questo, chi le avrà portate avanti non potrà essere considerato uno sconfitto. E non potrà sentirsi tale, per avere comunque fatto il proprio dovere di contribuire alla scelta.

Chi “vince”, invece, si troverà nella posizione più delicata, perché sarà chiamato a farsi carico di quel dovere verso la comunità in prima persona, con impegno e sopportando i sacrifici connessi. In questo senso, che la comunità riconosca un compenso per l’impegno richiesto sarebbe un atto di giustizia, non una sconfessione del principio di milizia. Ovviamente, tenendo anche conto che oggi i politici possono comunque contare su strutture amministrative di supporto più articolate che nel passato.

Posta in questi termini l’elezione, sarebbero insensati comportamenti da parte dei candidati volti ad ottenere sostegno a qualunque costo pur di “vincere”. Non avrebbe senso fare promesse roboanti. Non avrebbe senso vincolarsi ad interessi di parte. Lavorare per il bene della comunità significa tendere ad un bene comune, che sicuramente andrà a vantaggio di tutti domani, anche se magari richiederà sacrifici da parte di qualcuno nell’oggi. Perseguire interessi di parte significa adottare una visione miope, che sacrifica il futuro in cambio del bene immediato di qualcuno.

Quanto riteniamo che i comportamenti che osserviamo nella nostra società siano distanti da quelli che ci dovremmo aspettare? Questa, a mio parere, è la vera domanda da farsi rispetto alla questione della milizia.

Più siamo lontani da essi, più siamo vicini ad un “professionismo”, che non è da intendersi come remunerazione dei politici, ma come sviamento della politica dal suo fine originale. Il professionismo di cui preoccuparsi è quello di chi si accaparra consapevolmente del consenso per promuovere interessi di parte invece che interessi della comunità nel suo complesso. Sono i professionisti del consenso che andrebbero temuti.

Personalmente, credo che in Svizzera i comportamenti prevalenti siano oggi ancora sostanzialmente vicini a quelli che ci si possono attendere come manifestazione concreta del principio di milizia. Dico “ancora” perché percepisco un’evoluzione generale della cultura sociale che sembra andare verso assestamenti meno in linea con il principio di milizia.

E’ quindi utile porsi anche una seconda domanda: siamo convinti che il principio di milizia possa rimanere applicabile anche nel futuro? O riteniamo che sia una visione non più al passo con i tempi?

Vuole essere una domanda che spinge alla chiarezza. Entrambe le possibili risposte sono legittime.

Se si crede al futuro della milizia, allora corre l’obbligo di fare in modo che ogni scelta di comportamento sia davvero coerente con i suoi fondamentali. Ad esempio, andrebbe fatta una riflessione se il modo di affrontare le elezioni sia coerente o ci si stia spostando verso approcci da “vincitori” e “perdenti”, dando più peso alla spettacolarizzazione.

Se non ci si crede, ad esempio perché si ritiene che la politica non possa che essere confronto e scontro di interessi particolari, forse è opportuno non usare più elementi del principio di milizia nella retorica politica. Si farebbe della confusione, dell’ipocrisia. Si genererebbe l’impressione di una presa in giro collettiva e si sprecherebbe quel capitale di fiducia comunque necessario per poter camminare insieme.