La politica sull’immigrazione dell’impero romano

Barbari – Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano” del noto storico Alessandro Barbero ci dà la possibilità di osservare più da vicino come funzionasse l’impero rispetto ad una politica pubblica che anche oggi è di attualità: la politica dell’immigrazione. Una lettura storica interessante, perché riguarda questioni da “vita quotidiana” piuttosto che battaglie o eventi storici che vedono protagonisti solo membri delle élite. Ed essendo questioni da “vita quotidiana”, è più facile incuriosirsi, anche solo per trovare parallelismi con l’oggi.

Per prima cosa è bene ricordare una caratteristica strutturale dell’impero. L’impero si identificava sostanzialmente con il suo esercito, piuttosto che con altri ambiti amministrativi. Le autonomie locali erano particolarmente spinte e lo strumento vero attraverso cui l’imperatore si faceva sentire e riconoscere dai cittadini era proprio l’esercito, con la sua funzione di protezione dalle minacce esterne e di garanzia dell’ordine, oltre che di espansione.

Questo suggerisce un primo parallelismo con l’oggi: l’impero romano assomigliava più agli Stati Uniti d’America, con un governo federale per il quale il peso della difesa è particolarmente marcato rispetto agli altri ambiti di policy, che non all’Unione Europea, più concentrata su affari interni.

Nella funzione di protettore rispetto alle minacce esterne, l’esercito presidiava i confini. Barbero chiarisce fin da subito che vi era una netta distinzione tra territorio dell’impero e territori esterni, con il discrimine dato dal limes, un confine che si appoggiava, dove possibile, ad elementi morfologici quali i fiumi (il Reno e il Danubio in particolare), ma che era anche presidiato da reparti militari. Questi reparti svolgevano compiti di polizia di frontiera: ad esempio, controllavano che solo chi fosse munito di validi permessi potesse attraversare il confine.

Ma la peculiarità della politica dell’immigrazione dell’impero non stava solo nel presidio delle frontiere, ma nella gestione organizzata dei flussi migratori. Da una parte, vi erano popolazioni che vedevano nell’impero la possibilità di vivere una vita più agiata, meno soggetta alla precarietà di un’organizzazione economico-sociale primitiva. Dall’altra, c’era un apparato statale molto più sofisticato, ma anche più esigente quanto a risorse necessarie per mantenerlo.

Aveva bisogno di due tipi di risorse. Sicuramente di reclute per i reparti militari, ma anche di entrate fiscali per coprirne i costi di approvvigionamento, di armamento, di infrastrutturazione.

In entrambi i casi, servivano braccia: braccia per l’esercito e braccia per quella produzione agricola da cui si prelevavano le imposte necessarie a finanziare le spese militari. E in diversi momenti della storia dell’impero, queste braccia scarseggiarono: per gli esiti di guerre che avevano decimato i ranghi, per epidemie, carestie o altre vicende che avevano spopolato ampie regioni dell’impero. Da qui l’interesse dell’impero per le popolazioni barbare, sia quelle vinte in battaglia, sia quelle che si avvicinavano al limes chiedendo di entrare.

Per secoli, l’impero gestì politiche d’immigrazione volte ad accogliere e integrare popolazioni barbare all’interno del suo territorio. Lo faceva in modo molto strutturato e organizzato, tanto che per molto tempo queste pratiche hanno portato benefici nettamente superiori ai costi.

Innanzitutto vi era una decisione ufficiale di accoglienza, in base alle necessità di reclutamento e di ripopolamento. La decisione poteva riguardare intere popolazioni o parti di esse, in base al bisogno. Coloro che rientravano in queste autorizzazioni collettive venivano registrati ad uno ad uno, disarmati e poi deportati nelle regioni dove vi era terra incolta da rendere di nuovo produttiva. Qui erano prevalentemente insediati come coloni su latifondi demaniali o, in alcuni casi, latifondi privati, per i quali i proprietari dovevano poi pagare imposte.

Sicuramente erano soggetti al dovere di dedicare una parte dei frutti del loro lavoro all’impero sotto forma di affitti o imposte, con condizioni particolarmente dure. Sicuramente dovevano fornire un certo quantitativo di reclute tra i propri giovani, che erano avviati alla carriera militare.

In cambio, però, godevano progressivamente dei diritti riservati ai cittadini romani.

Vivendo dentro le regole, gli usi e i costumi romani, queste popolazioni venivano efficacemente assimilate, tanto che bastavano una o due generazioni per non distinguerle più dal resto della popolazione romana, se non per caratteristiche fisiche e per ricordi delle loro origini: nel modo di vivere e di comportarsi erano a tutti gli effetti romani.

Questo modello va in crisi con i goti, che porteranno alla dissoluzione dell’impero romano d’occidente. Inizialmente si segue la solita procedura. Certamente erano tanti, e questo complicava le cose: 40-50’000.

Una volta giunta la decisione dell’imperatore di accoglierli, anche in vista della guerra contro la Persia, si procede come al solito. Si traghettano al di qua del Danubio, ovviamente con tutte le difficoltà del caso. Li si raccoglie in un primo campo profughi in attesa di trasferirli.

Amministrativamente, ci sono procedure oliate per disarmarli, registrarli e sfamarli a spese dell’impero. Ma qui l’efficienza dell’amministrazione fa acqua. Si perde il controllo di questo flusso mastodontico di persone, per cui le registrazioni saltano e anche il disarmo viene eluso. Rispetto alle risorse messe a disposizione per sfamarli, gioca un ruolo la corruzione: gli ufficiali dell’esercito romano invece che distribuire le razioni alimentari gratuitamente come previsto, le fanno pagare ai goti, che arrivano a dover persino vendere i propri figli come schiavi per potersi sfamare.

Inefficienza e corruzione esasperano la situazione. I goti si ribellano. E sono in tanti. E non sono disarmati. Hanno la meglio sui soldati che li stanno scortando ai luoghi di loro installazione. Razziano e creano disordine. A loro si aggiungono anche altri goti entrati nell’impero prima di loro. La situazione è fuori controllo. L’imperatore Valente rientra con l’esercito che era impegnato nella guerra contro la Persia, contando di poter riportare la situazione sotto controllo proprio con l’esercito di manovra, quello appunto impiegato dall’imperatore per le guerre.

Sorprendentemente, proprio questo esercito viene sbaragliato dai goti. Lo stesso imperatore Valente viene ucciso. E’ la battaglia di Adrianopoli del 378 d.C. A questo punto, non c’è più una forza militare in grado di riportare i goti all’ordine. Occorre trattare. E nelle trattative si concede che i goti potranno continuare a vivere secondo i loro costumi, potranno formare reparti militari propri e non inquadrati e integrati nel sistema militare ordinario. Si perde quel processo di assimilazione alla cultura romana che aveva per secoli mantenuto l’impero coeso, nonostante l’arrivo di tante popolazioni barbariche.

Si sbriciola quella cultura condivisa che aveva cementato i romani. Da qui la fine dell’impero romano d’occidente.

Per chi volesse sentire una lezione del prof. Barbero sul tema, eccone una: