Democrazia, serve ancora?

La difficoltà crescente e riconosciuta di trovare persone disponibili a candidarsi alle elezioni comunali solleva il problema di come il comune di oggi può ancora assolvere in modo efficace alla sua funzione democratica.

Che cosa intendiamo per “funzione democratica”?

Per rispondere occorre ritornare al concetto “madre” di democrazia. Riprendendo la classica definizione di Aristotele, la consideriamo come quel regime politico in cui a governare siano tutti i cittadini. A dire il vero, Aristotele usava “democrazia” come termine per definire la forma degenerata del “governo di tutti”, mentre la forma positiva era identificata con il termine di “politeia”. La degenerazione, come anche per le forme in cui a governare siano in pochi (aristocrazia-oligarchia) o uno solo (monarchia-tirannide), stava nel fatto che i governanti non avessero come riferimento per la loro azione il bene comune, il bene della comunità, ma il loro interesse personale o di classe. Noi utilizziamo oggi il termine “democrazia” come traduzione della versione positiva del “governo di tutti” e alcuni autori suggeriscono il termine “demagogia” per identificare la versione negativa.

C’è una lunga tradizione di pensiero che riconosce al comune un ruolo importante nella costruzione e nel mantenimento di una democrazia in senso positivo. Nella filosofia civile di fine ‘700 e inizio ‘800 si riconosceva come fosse proprio nel comune che l’individuo diventa cittadino, cioè disponibile a sacrificare un beneficio individuale immediato per il bene comune, di cui comunque anche lui beneficerà.

Il problema fondamentale era, ed è, sempre lo stesso posto da Aristotele: come assicurarsi che l’attività di governo sia ispirata dal perseguimento del bene comune, e non da interessi particolari.

Negli anni 50 del ‘900, Romano Guardini ribadiva il concetto affermando:

 

“Nessun paragrafo di costituzione, nessuna alta corte di giustizia, nessuna autorità può essere d’aiuto se l’uomo medio non sente che la res publica, il bene comune di una esistenza umana libera e dignitosa è affidato nelle sue mani”

(ll Potere, 1952).

Possiamo prendere spunto da queste riflessioni per inquadrare la funzione democratica del comune come

la capacità di indurre l’individuo a diventare cittadino, cioè a sentire sulle proprie spalle la responsabilità del bene comune.

E ad agire di conseguenza.

Certamente una condizione fondamentale a che un regime politico si possa dire “democratico” è che nelle forme istituzionali si dia la possibilità a tutti i cittadini di partecipare alla vita politica, come elettori e come eletti.

La “funzione democratica”, però, persegue un obiettivo ancora più sostanziale: che ogni cittadino senta intimamente la responsabilità della res publica affidata nelle sue mani.

Concretamente, il comune offre meglio di altri livelli istituzionali la possibilità di fare esperienza diretta di che cosa significhi farsi carico della responsabilità della res publica: perché i risultati delle scelte li si vede più direttamente, perché c’è un rapporto più stretto con chi ricopre cariche pubbliche, perché sono più alte le probabilità di assumere direttamente una carica pubblica.

L’allontanamento dalla politica comunale rischia di mettere in pericolo questo percorso virtuoso di civilizzazione, cioè di trasformazione dell’individuo in cittadino, e induce a riflettere.

Innanzitutto c’è da chiedersi se la democrazia, il governo di tutti, sia ancora un’idea da perseguire.

Certo, la democrazia è un principio sacrosanto, ma forse oggi non si riconosce più la centralità di un tempo.

Non è necessario citare la Cina. Basta dare un’occhiata all’esperienza di Singapore. Una città-Stato regolarmente in posizioni alte nei ranking sul livello di ricchezza, di sviluppo economico, di innovazione tecnologica, di qualità della vita, anche di innovazione nell’amministrazione pubblica. Ma non una democrazia.

L’esempio ci può suggerire che laddove si assicurano le libertà fondamentali, ma anche alti livelli di efficienza e di efficacia dell’azione politica, che si traduce poi in servizi pubblici di qualità, in alti livelli di benessere economico, si può ben accettare che l’azione di governo sia affidata a pochi specialisti, senza invocare il diritto di tutti a partecipare alla vita politica.

Se le cose funzionano, è davvero necessario accanirsi a difendere la democrazia, anche in senso formale?

Se la tradizione occidentale ci porta a non essere del tutto disponibili a fare a meno della democrazia in senso formale (almeno sulla carta, tutti i cittadini devono continuare ad avere la possibilità di eleggere ed essere eletti per una carica pubblica), qualche dubbio sulla necessità che proprio tutti debbano essere effettivamente chiamati ad assumere una carica pubblica l’abbiamo.

Il principio di milizia è ancora attuale? Si tratta di una domanda ricorrente. La milizia è per definizione la massima espressione di quella democrazia sostanziale di cui si diceva prima.

Non per forza, ovviamente, pensare ad una maggiore professionalizzazione della politica anche a livello comunale significa rinunciare a perseguire una democrazia in senso sostanziale. Occorre, però, riconoscere che il diavolo sta nei dettagli: basta poco per sacrificarla in cambio di una migliore competenza, di migliori risultati in termini di servizi pubblici, di migliori capacità strategiche.

Quale “professionalizzazione della politica comunale” può essere auspicabile? Quali dettagli possono fare la differenza?

Sia che si propenda per una conferma del principio di milizia “puro”, sia che si ambisca ad una piena professionalizzazione, utili informazioni per sostenere le posizioni e suggerire le modifiche necessarie per tradurre in pratica questi principi vengono da una piena comprensione dell’esperienza politica oggi, di come essa è vissuta dai diretti partecipanti o di come è percepita da chi se ne tiene lontano.

Quali condizioni oggi allontanano dalla politica comunale attiva? Dalla discussione nel workshop ne sono emerse alcune chiaramente:

  1. la bassa/non adeguata remunerazione del tempo dedicato: mancano elementi di beneficio personale sufficienti a rendere ragionevole un impegno che comunque rimane prevalentemente a base volontaria.
  2. il tanto tempo da dedicare, per molti insostenibile rispetto ad una soddisfacente equilibrio con gli impegni privati e professionali.
  3. la complessità tecnica delle modalità di funzionamento della “macchina comunale”, che richiede un significativo impegno per acquisire le competenze necessarie e la sensazione di muoversi a tentoni perché non si conosce adeguatamente il terreno amministrativo.
  4. la percezione di non riuscire ad ottenere risultati adeguati, per i tempi amministrativi che richiedono le decisioni e le realizzazioni, per i vincoli posti all’autonomia comunale da leggi, regolamenti e decisioni delle autorità superiori, prima ancora che dalle effettive disponibilità di bilancio.
  5. il clima politico non sempre sereno ed accogliente, il sempre più scarso riconoscimento sociale per l’impegno assunto, l’esposizione a critiche e ad accuse, a volte infondate, potenziate dall’uso dei social media.

Scaturiscono, allora, alcune domande:

  1. Quale fisionomia dovrebbe assumere la carica di sindaco, municipale, consigliere comunale per incorporare il meglio sia della milizia che della professionalizzazione?
  2. Quale ruolo dovrebbe assumere l’amministrazione comunale come supporto alla politica?
  3. Quali semplificazioni nelle procedure amministrative, nei vincoli alle scelte comunali, possono concretamente aumentare la percezione dei politici comunali che il loro spazio decisionale è tale da meritare un impegno? Detto altrimenti: quali errori si è disposti a tollerare pur di rendere sostanziale lo spazio decisionale comunale?
  4. Come si può incidere sulle dinamiche del dibattito politico per evitare il decadimento verso un clima politico cupo e demoralizzante?